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giovedì, dicembre 31, 2009
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Buon capodanno 2010 a tutti
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sabato, dicembre 26, 2009
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AUGURI DI BUON NATALE A TUTTI
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lunedì, dicembre 21, 2009
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Jigai (自害, Jigai?) era un tradizionale metodo di suicidio rituale praticato dalle donne in Giappone per mezzo del taglio della vena giugulare, con un coltello tantō (una lama di 15-30 cm) o kaiken (di 15 cm). Spesso veniva nascosto prima dell'atto sotto la cintura (chiamata obi) del kimono.
Il jigai è l'equivalente femminile del seppuku, il suicidio rituale praticato dai guerrieri samurai, conseguito tramite un profondo taglio dell'addome. Anche se, differentemente dal seppuku, si può compiere jigai senza assistenza (nel seppuku veniva individuato un kaishakunin che avrebbe tagliato una parte del collo al suicida). Per questo motivo si sarebbe notato un minimo sfiguramento del volto.
Prima di commettere jigai spesso una donna si legava insieme le ginocchia per far trovare il proprio corpo in una posa dignitosa, passate le convulsioni ante-mortem. Questo atto era spesso praticato per preservare l'onore se ci fosse stata un'imminente sconfitta militare o per prevenire uno stupro. L'esercito invasore, una volta entrato in una qualche abitazione, avrebbe visto la padrona di casa, seduta da sola, con la faccia rivolta dalla parte opposta rispetto alla porta ma una volta arrivato da lei, avrebbero scoperto che la stessa si era precedentemente e silenziosamente tolta la vita.

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venerdì, dicembre 11, 2009
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Yamamoto Tsunetomo noto anche con il nome buddhista Yamamoto Jōchō (山本 常朝, Yamamoto Jōchō?) (12 giugno 16591721) è stato un militare e filosofo giapponese.
Era un samurai della prefettura di Saga nella provincia di Hizen (Kyūshū) che serviva Mitsushige Nabeshima, al cui servizio era entrato all'età di soli 9 anni. A vent'anni conobbe prima Tannen, un monaco Zen che aveva lasciato il tempio locale in segno di protesta per la condanna di un altro monaco, e Ishida Ittei, un letterato confuciano consigliere di Nabeshima esiliato per più di 8 anni per essersi opposto alla decisione di un daimyō.
Quando il suo patrono morì nel 1700, non scelse il junshi (accompagnare il signore nella morte eseguendo il seppuku) perché Nabeshima aveva mostrato di condannare la pratica quando era in vita e voleva seguirne la volontà. Dopo alcuni screzi con il successore di Nabeshima, Yamamoto decise di prendere i voti buddhisti con il nome Jōchō e di ritirarsi in un eremo sulle montagne.
Ormai vecchio, tra il 1709 e 1716 raccontò i suoi pensieri a un altro samurai, Tsuramoto Tashiro; molti di questi riguardavano il padre e il nonno del suo patrono, il bushidō e la decadenza della casta samurai nel pacifico periodo Edo. Tashiro non pubblicò il contenuto delle conversazioni avute con Tsunetomo che molti anni più tardi, con il nome collettivo di Hagakure (葉隱 o 葉隠, Hagakure? "All'ombra delle foglie").
Lo Hagakure non fu molto noto durante gli anni dello shogunato, ma intorno agli anni '30 era divenuto uno dei testi più famosi sul bushidō insegnati in Giappone.

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lunedì, novembre 30, 2009
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« Ho scoperto che la Via del Samurai consiste nella morte. »

(Yamamoto Tsunetomo)


Samurai in armi (circa 1860)
Il samurai (侍) era un militare del Giappone feudale, appartenente ad una classe nobile. Il nome deriva sicuramente da un verbo, saburau, che significa servire o tenersi a lato e letteralmente significa colui che serve. Un termine più appropriato sarebbe bushi (武士, letteralmente: guerriero), che risale al periodo Edo. Attualmente il termine viene usato per indicare proprio la nobiltà guerriera (non, ad esempio, gli ashigaru o i fanti). I samurai che non servivano un daimyō perché era morto o perché ne avevano perso il favore, erano chiamati rōnin.
I samurai costituivano una casta colta, che oltre alle arti marziali, direttamente connesse con la loro professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodō. Col tempo, durante l'era Tokugawa persero gradualmente la loro funzione militare. Verso la fine dell'era Tokugawa, i samurai erano essenzialmente burocrati dello shōgun, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali.
Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale. Ciò nonostante, il bushidō, rigido codice d'onore dei samurai, è sopravvissuto ed è ancora, nella società giapponese odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento che parallelamente, nelle società occidentali, è costituito da principi etici di derivazione religiosa.

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mercoledì, novembre 11, 2009
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Il Seppuku (切腹, Seppuku?) è un termine giapponese che indica un rituale per il suicidio in uso tra i samurai. In Occidente viene usata più spesso la parola harakiri (腹切り, harakiri?), a volte in italiano volgarizzato come karakiri, con pronuncia e scrittura errata dell'ideogramma hara. Nello specifico, però, seppuku e harakiri presentano alcune differenze, qui di seguito spiegate.
La traduzione letterale di entrambi i termini è "taglio del ventre" e veniva eseguito, secondo un rituale rigidamente codificato, come espiazione di una colpa commessa o come mezzo per sfuggire ad una morte disonorevole per mano dei nemici. Un elemento fondamentale per la comprensione di questo rituale è il seguente: si riteneva che il ventre fosse la sede dell'anima, e pertanto il significato simbolico era quello di mostrare agli astanti la propria anima priva di colpe in tutta la sua purezza.
Alcune volte praticato volontariamente per svariati motivi, durante il periodo Edo (16031867), divenne una condanna a morte che non comportava disonore. Infatti il condannato, vista la sua posizione nella casta militare, non veniva giustiziato ma invitato o condannato a togliersi da solo la vita praticandosi con un pugnale una ferita profonda all'addome di una gravità tale da provocarne la morte.
Il taglio doveva essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l'alto. La posizione doveva essere quella classica giapponese detta seiza cioè in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all'indietro; ciò aveva anche la funzione d'impedire che il corpo cadesse all'indietro, infatti il guerriero doveva morire sempre cadendo onorevolmente in avanti. Per preservare ancora di più l'onore del samurai, un fidato compagno, chiamato kaishakunin, previa promessa all'amico, decapitava il samurai appena egli si era inferto la ferita all'addome, per fare in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto.
La decapitazione (kaishaku) richiedeva eccezionale abilità e infatti il kaishakunin era l'amico più abile nel maneggio della spada. Un errore derivante da poca abilità o emozione avrebbe infatti causato notevoli ulteriori sofferenze. Proprio l'intervento del kaishakunin e la conseguente decapitazione costituiscono la differenza essenziale tra seppuku e hara-kiri: sebbene le modalità di taglio del ventre siano analoghe, nello hara-kiri non è prevista la decapitazione del suicida, e pertanto viene a mancare tutta la relativa parte del rituale, con conseguente minore solennità dell'evento.
Il più noto caso di seppuku collettivo è quello dei "Quarantasette rōnin", celebrato nel dramma Chushingura, mentre il più recente è quello dello scrittore Yukio Mishima avvenuto nel 1970. In quest'ultimo caso il kaishakunin Masakatsu Morita, in preda all'emozione, sbagliò ripetutamente il colpo di grazia. Intervenne quindi Hiroyasu Koga che decapitò lo scrittore.
Una delle descrizioni più accurate di un seppuku è quella contenuta nel libro Tales of old Japan (1871) di Algernon Bertram Mitford, ripresa in seguito da Inazo Nitobe nel suo libro Bushido, l'anima del Giappone (1899). Mitford fu testimone oculare del seppuku eseguito da Taki Zenzaburo un samurai che, nel febbraio 1868, aveva dato l'ordine di sparare sugli stranieri a Kobe e, assuntasi la completa responsabilità del fatto, si era dato la morte con l'antico rituale. La testimonianza è di particolare interesse proprio perché resa da un occidentale che descrive una cerimonia, così lontana dalla sua cultura, con grande realismo.
Nel 1889, con la costituzione Meiji, venne abolito come forma di punizione. Un caso celebre fu quello dell'anziano ex-daimyō Nogi Maresuke che si suicidò nel 1912 alla notizia della morte dell'imperatore. Casi di seppuku si ebbero al termine della Seconda guerra mondiale tra quegli ufficiali, spesso provenienti dalla casta dei samurai, che non accettarono la resa del Giappone.
Con il nome di Jigai, il seppuku era previsto, nella tradizione della casta dei samurai, anche per le donne; in questo caso il taglio non avveniva al ventre bensì alla gola dopo essersi legate i piedi per non assumere posizioni scomposte durante l'agonia. L'arma usata poteva essere il tantō (coltello), anche se più spesso, soprattutto sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, detto anche guardiano dell'onore, la seconda lama (più corta) che era portata di diritto dai soli samurai.
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lunedì, novembre 02, 2009
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Non entriamo mai due volte nello stesso fiume. Tutto è un flusso continuo.
Eraclito
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I Quarantasette Rōnin vengono accolti fuori dal palazzo di Matsudaira-no-Kami.
I Quarantasette Rōnin erano un gruppo di samurai al servizio di Asano Naganori, rimasti senza padrone (e quindi divenuti rōnin), dopo che il loro daimyō venne costretto a commettere seppuku (il suicidio rituale giapponese) per aver assalito il maestro di protocollo dello Shogun, Kira Yoshinaka, che lo aveva insultato.
Gli uomini di Asano, dopo aver atteso oltre un anno pianificando l'attacco, lo vendicarono uccidendo il cortigiano e tutti i suoi discendenti maschi. Nonostante avessero seguito i precetti del bushidō vendicando il loro padrone e la loro impresa fosse stata vista con forte approvazione dai nobili di corte, 46 dei 47 rōnin vennero a loro volta obbligati a commettere seppuku per aver sfidato l'autorità imperiale. Il più giovane di loro, Terasaka Kichiemon, invece ricevette l'ordine di rimanere in vita per continuare a fare con regolarità le offerte in favore degli spiriti degli altri condannati, poiché solo uno dei 47 ronin era abbastanza valoroso da essere degno di farlo.
La vicenda che si è svolta intorno al 1701, ha ispirato un gran numero di racconti e rappresentazioni di teatro Kabuki, la più nota delle quali è il Chushingura. Gli uomini di Asano divennero eroi popolari, incarnando lo spirito del bushidō e furono in ogni tempo oggetto di un vero e proprio culto. Poiché la parola rōnin ha, nel linguaggio comune, una valenza spregiativa, i protagonisti della vicenda sono designati come "Quarantasette gishi (uomini retti)".
Il loro leader, Oishi Kuranosuke, è rappresentato da una statua bronzea posta nel 1921 all'entrata del tempio Sengakuji di Tokyo, cioè nel luogo in cui si compì il loro destino e in cui si trovano le loro tombe.
Ogni anno sulla tomba i giapponesi arrivano da tutta la nazione per deporre dei fiori in ricordo del loro eroico sacrificio. Grazie al cinema, teatro e letteratura questa vicenda è diventata popolare in tutto il mondo, caratterizzando in se stessa il vero spirito del bushido (un'interpretazione in chiave moderna è il film Ronin, con R.De Niro)

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sabato, ottobre 17, 2009
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Acquisisci nuove conoscenze mentre rifletti sulle vecchie, e forse potrai insegnare ad altri.

Confucio
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venerdì, ottobre 09, 2009
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Yamamoto Tsunetomo noto anche con il nome buddhista Yamamoto Jōchō (山本 常朝, Yamamoto Jōchō?) (12 giugno 16591721) è stato un militare e filosofo giapponese.
Era un samurai della prefettura di Saga nella provincia di Hizen (Kyūshū) che serviva Mitsushige Nabeshima, al cui servizio era entrato all'età di soli 9 anni. A vent'anni conobbe prima Tannen, un monaco Zen che aveva lasciato il tempio locale in segno di protesta per la condanna di un altro monaco, e Ishida Ittei, un letterato confuciano consigliere di Nabeshima esiliato per più di 8 anni per essersi opposto alla decisione di un daimyō.
Quando il suo patrono morì nel 1700, non scelse il junshi (accompagnare il signore nella morte eseguendo il seppuku) perché Nabeshima aveva mostrato di condannare la pratica quando era in vita e voleva seguirne la volontà. Dopo alcuni screzi con il successore di Nabeshima, Yamamoto decise di prendere i voti buddhisti con il nome Jōchō e di ritirarsi in un eremo sulle montagne.
Ormai vecchio, tra il 1709 e 1716 raccontò i suoi pensieri a un altro samurai, Tsuramoto Tashiro; molti di questi riguardavano il padre e il nonno del suo patrono, il bushidō e la decadenza della casta samurai nel pacifico periodo Edo. Tashiro non pubblicò il contenuto delle conversazioni avute con Tsunetomo che molti anni più tardi, con il nome collettivo di Hagakure (葉隱 o 葉隠, Hagakure? "All'ombra delle foglie").
Lo Hagakure non fu molto noto durante gli anni dello shogunato, ma intorno agli anni '30 era divenuto uno dei testi più famosi sul bushidō insegnati in Giappone.
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Ancora un post di tenore diverso, ieri serata di festa al dojo della "Bushido karate-do" per il ritorno dei nostri compagni che hanno partecipato al meraviglioso Stage in Giappone alle pendici del Fuji.

Le lacrime di felicità, si sono presto confuse con il sudore, e dopo molti mesi Andrea è tornato a guidare un allenamento di nuovo "tirato".

Più tardi in pizzeria ci siamo beati dei racconti dei reduci, e abbiamo smesso di ridere e scherzare solo dopo l'una di notte.

Preso foto sullo Stage.
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Ciao, questa settimana il tenore del post è un poco diverso dal solito, Andrea, il nostro maestro, è in Giappone, ospite della Yuten Kai per partecipare al periodico stage sulle pendici del Fuji.

un saluto a lui, al nostro presidente Paolo, ad Anna, Annalisa, Mila e a Stefano.

divertitevi, e portate a casa tanta energia e stimoli per l'anno di pratica che ci attende.
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venerdì, settembre 11, 2009
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Hagakure è una delle opere letterarie più significative tramandateci dal Giappone, pubblicata nel 1906 ma composta due secoli prima. Il titolo Hagakure significa letteralmente "nascosto dalle foglie" (oppure "all'ombra delle foglie"; il titolo completo era Hagakure kikigaki, "annotazioni su cose udite all'ombra delle foglie") e l'opera trasmette l'antica saggezza dei samurai sotto forma di brevi aforismi dai quali emerge lo spirito del Bushido (la Via del Samurai) con la differenza di rivolgersi al Samurai solitario (rōnin) che può venire a trovarsi, per una serie di vicissitudini che non dipendono dalla sua volontà, senza un Signore da servire. Questa peculiarità attrasse Yukio Mishima che vedeva nel periodo storico da lui vissuto il riproporsi di questa situazione che viveva con profonda sofferenza.
L'autore Yamamoto Tsunetomo fu al servizio del daimyo Nabeshima Mitsushige (1632-1700) del feudo di Saga in un'epoca di pace e di inizio della decadenza dei samurai. Quando il daimyo morì, Yamamoto divenne monaco buddhista e si ritirò in monastero dove compose, aiutato dall'allievo Tashiro Tsuramoto, lo Hagakure, l'opera sullo spirito e il codice di condotta del samurai. Nonostante l'autore ne avesse chiesto la distruzione, esso ebbe ampia diffusione e dopo la pubblicazione subì la strumentalizzazione del militarismo giapponese della prima metà del XX secolo che travisò lo spirito autentico dell'opera.
Il tema principale del testo è la morte, non come semplice estinzione della vita, piuttosto nel senso psicologico dell'eliminazione dell'io. Lo Hagakure fu considerato un libro fondamentale e profondamente ispirante da Yukio Mishima. Egli, nell'estate del 1967, cioè tre anni prima del suo clamoroso seppuku, scrisse un commento ai primi tre volumi dell'opera. Questo libro, edito in Italia col titolo: La via del samurai, Bompiani 1987 costituì, oltre che un interessante approfondimento sull'opera, un vero e proprio testamento spirituale di Mishima.
Hagakure è una raccolta di principi morali ma anche di consigli pratici, norme comportamentali, notizie storiche ed episodi esemplari di valore. Alcuni sono di natura assai spicciola (Come reprimere uno sbadiglio o Come licenziare un servo) e di semplice etichetta, altri invece costituiscono il nucleo del bushido cioè di quell'insieme di principi che costituì per secoli l'etica di tutto il popolo giapponese.
Curiosità
Nel 1999 il regista Jim Jarmusch ha realizzato il film Ghost Dog - Il Codice del Samurai nel quale il protagonista Forest Whitaker, un afroamericano chiamato Ghost Dog, vive seguendo i principi dell'Hagakure e "lavora" come killer al soldo di un malavitoso affiliato ad una gang italo/americana in declino.
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venerdì, settembre 04, 2009
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Miyamoto Musashi è sicuramente considerato il più grande spadaccino giapponese della sua epoca. Nato nel villaggio Miyamoto nella provincia di Harima, fu istruito all'uso delle armi dal padre Munisai, che era uno spadaccino riconosciuto dallo shogun, mentre al suo sviluppo spirituale contribuì anche il monaco zen Takuan Soho amico di Yagyu Munemori, famoso maestro di spada. A soli 13 anni ebbe il suo primo duello mortale.
A 16 anni partecipò e si batté nella Battaglia di Sekigahara (1600) per la fazione sconfitta, quella dei daimyō dell'ovest. Sopravvissuto al massacro, Musashi cominciò un vagabondaggio per il Giappone alla ricerca di avventure e di affermazione personale.
Vagò fino ai 29 anni, battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria, anche quando si trovò a combattere contro più avversari contemporaneamente o contro maestri di arti marziali, come i samurai della famiglia Yoshioka, famosi per la loro scuola di spada a Kyōto. Forse il suo duello più celebre fu quello combattuto contro Kojirō Sasaki, detto Ganryu, nel 1612, sull'isola di Funa-jima. Il duello ebbe così tanta rinomanza che ora quest'isola porta il nome di Ganryu-jima.
Alcune voci dicono che Kojiro fosse sordo e che Musashi approfittò di questo[senza fonte] per colpirlo mortalmente con un bokken ricavato dal remo della barca che l'aveva portato a Funa-jima, quindi molto più lungo del consueto.
I dati biografici sono incerti, ma tradizionalmente si ritiene vero che Musashi non abbia mai perso un incontro, nonostante contrapponesse spesso un bokken alla katana dell'avversario (si tenga sempre in mente che il bushido, il codice d'onore dei samurai, imponeva allo sconfitto in un duello di suicidarsi). Pare inoltre che fosse di modi molto scortesi: non era mai puntuale agli appuntamenti ed aveva una scarsissima igiene personale, si dice infatti che fosse impossibile lavarlo finché portava la spada al fianco, cosa che faceva persino nel sonno.
A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline risultando un maestro in molte di esse come, ad esempio, nella pittura, nella calligrafia e nell'arte della forgiatura delle tsuba, le tipiche guardie delle spade che spesso risultavano vere e proprie opere d'arte, tanto che diede il proprio nome a un modello divenuto poi tradizionale.
La leggenda vuole che al suo funerale un fortissimo tuono scosse tutti i presenti alla cerimonia e il commento dei più fu "è lo spirito di Musashi che lascia il corpo".
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venerdì, agosto 28, 2009
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I sette principi del Bushidō
義, Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell'onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
勇, Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un Samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L'eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.
仁, Jin: Compassione
L'intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d'aiuto ai propri simili e se l'opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una.
礼, Rei: Gentile Cortesia
I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini.
誠, Makoto o 信, Shin: Completa Sincerità
Quando un Samurai esprime l'intenzione di compiere un'azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l'intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di "dare la parola" né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.
名誉, Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell'onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.
忠義, Chugi: Dovere e Lealtà
Per il Samurai compiere un'azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.

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venerdì, agosto 21, 2009
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Il Bushidō (giapp. 武士道, la via del guerriero) è un codice di condotta e un modo di vita, analogo al concetto europeo di Cavalleria, adottato dai guerrieri giapponesi. In esso sono raccolte le norme di disciplina, militari e morali che presero forma in Giappone durante gli shogunati di Kamakura (1185-1333) e Muromachi (1336-1573), e che furono formalmente definite ed applicate nel periodo Tokugawa (1603 - 1867).
Ispirato ai principi del buddhismo e del confucianesimo adattati alla casta dei guerrieri, il Bushidō esigeva il rispetto dei valori di onestà, lealtà, giustizia, pietà, dovere e onore che dovevano essere perseguiti fino alla morte. Il venir meno a questi principi causava il disonore del guerriero, che espiava commettendo il seppuku, il suicidio rituale.
Successivamente alla Restaurazione Meiji (1866), il Bushidō ebbe come punto fondante il rispetto assoluto dell'autorità dell'imperatore e divenne uno dei capisaldi del nazionalismo giapponese. Uno dei principi del Bushidō, l'assoluto disprezzo per il nemico che si arrende, fu la causa dei trattamenti brutali e denigranti a cui i giapponesi sottoposero i prigionieri nel corso della seconda guerra mondiale, mentre la ricerca della morte onorevole in battaglia, fu la molla che spinse molti kamikaze al sacrificio.

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L'Associazione Bushido Karate Do tiene corsi di karate per adulti e bambini presso il Ginnasio sportivo in viale delle Libertà (viale della stazione) a Forlì. Gli orari verranno pubblicati prossimamente.

Il sito dell'associazione è http://www.bkd-fo.net visitatelo!
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Segnaliamo a tutti il sito degli amici dell'Associazione Karate Do Shotokai Bologna che, in collaborazione col CUSB (Centro Universitario Sportivo Bolognese), organizza corsi di Karate a Bologna, presso la palestra scolastica «Irnerio» di via Finelli.

L'indirizzo del sito è: http://karatebologna.altervista.org
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venerdì, agosto 14, 2009
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Il Karate è un'arte marziale a mani nude sviluppatasi nel corso dei secoli nell'isola di Okinawa nell'arcipelago delle Ryu Kyu ed originata dalla fusione tra metodi di combattimento nati nell'isola e tecniche similari di origine cinese. Le sue radici si fanno risalire all'ormai famoso tempio di Shaolin (frequenti furono infatti i contatti con la Cina di cui Okinawa era un protettorato ed in particolare con la vicina regione del Fukien).

Questo metodo di combattimento, basato su colpi di pugno e di mano diretti e circolari, calci, proiezioni ed immobilizzazioni, era inizialmente finalizzato all'autodifesa contro le aggressioni dei briganti e dei militari degli eserciti di occupazione, prima cinesi e poi giapponesi, che avevano proibito agli isolani il possesso di qualsiasi arma. Nacquero numerosi stili di Okinawa-Te o To-De (termini utilizzati per individuare quello che oggi chiamiamo Karate-dō) e presero il nome dei villaggi in cui furono creati: Shuri-Te, Naha-Te, Tomari-Te, ecc...

Un maestro di Okinawa, Gichin Funakoshi, per primo presentò e divulgò il Karate in Giappone con dimostrazioni nelle principali città dell'arcipelago seguito da altri maestri che nel frattempo avevano lasciato l'isola di Okinawa con lo stesso scopo.

In questo periodo il Karate, integrandosi con il Budō giapponese, divenne Karate-dō (Via del Karate) trasformandosi da metodo di combattimento esclusivamente utilitaristico in «Dō» cioè «Via» di sviluppo fisico e spirituale.

Il termine Karate-dō è scritto ricorrendo a tre kanji (ideogrammi), il primo, Kara, significa vuoto, il secondo Te significa mano ed il terzo dō significa Via.

Il kanji kara può essere interpretato in due modi. La prima e più conosciuta definizione (anche se è la meno sottile) ricorda che, attraverso la pratica del Karate vengono studiate tecniche di autodifesa senza uso di armi che non siano mani, piedi ed altre parti del corpo umano.

La seconda definizione rispecchia la filosofia delle arti marziali e della spiritualità orientale bene espressa dalle parole del M° Gichin Funakoshi: «Come la superficie lucida di uno specchio riflette tutto ciò che le sta davanti ed una valle silenziosa riporta ogni più piccolo suono, così il praticante di Karate deve rendere il proprio spirito vuoto da ogni egoismo e malvagità in uno sforzo per reagire convenientemente dinnanzi a tutto ciò che può incontrare. Questo è il significato del termine Kara, o vuoto, in Karate».

© Marco Forti
riprodotto con il consenso esplicito dell'autore