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La parola samurai ha avuto origine nel periodo giapponese Heian, quando era pronunciata saburai, e significava "servo" o "accompagnatore". Fu soltanto nell'epoca moderna, intorno al periodo Azuchi-Momoyama e al periodo Edo del tardo XVI e XVII secolo che la parola saburai mutò in samurai. Per allora, il significato si era già modificato da tempo.
Durante l'era di più grande potere dei samurai, anche il termine yumitori (arciere) veniva usato come titolo onorario per un guerriero, anche quando l'arte della spada divenne la più importante. Gli arcieri giapponesi (vedi arte del kyūjutsu) sono ancora fortemente associati con il dio della guerra Hachiman.
Questi sono alcuni termini usati come sinonimo di samurai.
• Buke - un appartenente ad una famiglia militare. un suo membro;
• Mononofu- termine arcaico per "guerriero";
• Musha - abbreviazione di Bugeisha, letteralmente "uomo delle arti marziali";
• Shi - pronuncia sinogiapponese del carattere che comunemente si legge samurai
• Tsuwamono - termine arcaico per "soldato", fatto celebre da un famoso haiku di Matsuo Basho; indica una persona valorosa;
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« Ho scoperto che la Via del Samurai consiste nella morte. »
(Yamamoto Tsunetomo)

Il samurai (侍) era un militare del Giappone feudale, appartenente ad una classe nobile. Il nome deriva sicuramente da un verbo, saburau, che significa servire o tenersi a lato e letteralmente significa colui che serve. Un termine più appropriato sarebbe bushi (武士, letteralmente: guerriero), che risale al periodo Edo. Attualmente il termine viene usato per indicare proprio la nobiltà guerriera (non, ad esempio, gli ashigaru o i fanti). I samurai che non servivano un daimyō perché era morto o perché ne avevano perso il favore, erano chiamati rōnin.
I samurai costituivano una casta colta, che oltre alle arti marziali, direttamente connesse con la loro professione, praticava arti zen come il cha no yu o lo shodō. Col tempo, durante l'era Tokugawa persero gradualmente la loro funzione militare. Verso la fine dell'era Tokugawa, i samurai erano essenzialmente burocrati dello shōgun, e la loro spada veniva usata soltanto per scopi cerimoniali.
Con il Rinnovamento Meiji (tardo XIX secolo) la classe dei samurai fu abolita in favore di un esercito nazionale in stile occidentale. Ciò nonostante, il bushidō, rigido codice d'onore dei samurai, è sopravvissuto ed è ancora, nella società giapponese odierna, un nucleo di principi morali e di comportamento che parallelamente, nelle società occidentali, è costituito da principi etici di derivazione religiosa.
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L'India, Mauritius ed il Nepal sono nazioni a maggioranza induista. Il Nepal fino all'avvento della repubblica è stata l'unica nazione in cui l'induismo era la religione ufficiale.
L'Asia del Sud Est è diventata in larga parte induista dopo il III secolo, e fece parte dell'Impero Chola intorno all'XI secolo. Quest'influenza ha lasciato numerose tracce architettoniche, come la famosa città-tempio di Angkor Vat o tracce culturali come le danze del Bharata Natyam e del Kathakali. L'isola di Bali è a maggioranza induista, nel mezzo dell'arcipelago indonesiano, a maggioranza islamica. La stessa Indonesia ha conservato come proprio simbolo nazionale Garuda, il gigantesco uccello che trasporta Vishnu.
Si trovano altresì minoranze induiste in molti paesi: Bangladesh (11 milioni), Myanmar (2,1 milioni), Sri Lanka (2,5 milioni), Stati Uniti (1,7 milioni), Pakistan (1,3 milioni), Sud Africa (1,2 milioni), Gran Bretagna (1,2 milioni), Malesia (1,1 milioni), Canada (0,7 milioni), Fiji (0,5 milioni), Trinidad e Tobago (0,5 milioni), Italia (0,5 milioni) - cfr. Induismo in Italia -, Guyana (0,4 milioni), Paesi Bassi (0,4 milioni) e Suriname (0,2 milioni).
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Tratto da "Storia del Karate" di K. Tokitsu - Luni Editrice.
Shigeru Egami pensa di aver seguito a lungo una via sbagliata nella sua ricerca del karate, malgrado le indicazioni di G. Funakoshi.
Egli scrive:«Ciò che scrivo qui non è che l'espressione del processo delle mie riflessioni e delle mie esperienze durante una quarantina d'anni di cammino nella via del karate.
Sarei felice se potessi portare un aiuto a chi cerca di diventare esperto di questa Via.
Penso che il Maestro Gichin Funakoshi abbia tentato di tracciare un sentiero durante i novant'anni della sua vita; ha seguito una via difficile.
Io sono arrivato fino a qui camminando saldamente e volontariamente sulla strada che ci ha indicato. Ma neanche procedere su un sentiero tracciato dai nostri predecessori è facile, poiché vi sono sempre dei problemi di stato mentale, per noi che siamo uomini comuni.
Anche se un sentiero è stato dissodato una volta, succede che si perda con il tempo.
Per questo alcuni si perdono e altri entrano in un labirinto a forza di voler trovare affrettatamente un'efficacia, ed esitano, talvolta, ad abbandonare questa penosa ricerca.
Tuttavia siamo felici, poiché vi è in ogni caso un sentiero che è stato tracciato almeno una volta.
E togliendo erbe e pietre, possiamo percepire le tracce del sentiero.
Un giorno della mia giovinezza mi sono perso, ho abbandonato questo sentiero e mi sono trovato in un labirinto... Ci ho messo del tempo a capire questa situazione, e per tornare sulla buona strada ho dovuto attraversare un periodo penoso e difficile.
Quando mi sono ritrovato sulla buona strada, avevo già più di quarant' anni.
Ma ritrovarmi in una giusta via mi ha riempito di gioia, e da quel giorno ho potuto far fronte a tutti i tipi di difficoltà e sono arrivato in ogni caso fino all'ultimo punto del sentiero che il mio Maestro aveva tracciato.
Non bisogna mai aver fretta, è la lezione che ho tratto dalle mie esperienze...»
Egli riporta questo aneddoto, che illustra l'allenamento che praticava tra i venticinque e i trent'anni, e i consigli dati da G. Funakoshi.
«Verso il 1936, i giovani allievi si sono riuniti attorno al M° Yoshitaka Funakoshi per costruire il dojo centrale, che fu chiamato Shotokan partendo dallo pseudonimo in calligrafia del maestro Funakoshi.
Chiamavamo questo dojo "Honbu dojo" (dojo centrale).
Eravamo tutti molto fieri di questo magnifico dojo che avevamo costruito noi stessi, cosa che stimolava l'atmosfera dell'allenamento.
I due maestri Funakoshi - Yoshitaka e Gichin - ci allenavano con un sorriso di soddisfazione.
Si era nel 1937 o 1938, poco dopo la fine dei miei studi all'università. Mi allenavo con accanimento, di giorno al dojo dell'università e la sera al dojo centrale.
Una sera mi allenavo allo spostamento nel kata Tekki in questo dojo, in cui non c'era nessuno. Parlando a me stesso, dico: "Senza posare il tallone, posare il piede con sokuto..." ed effettuo un fumikomi con determinazione; allora ho sentito un rumore secco del parquet.
Sorpreso, guardo il suolo.
Il mio sokuto ha rotto in due una delle assi del parquet nuovo. Anzi, non si è rotta, è come se l'avessi tagliata. Sono sorpreso e al tempo stesso contento di aver potuto realizzare una tale prodezza tecnica.
Ma poiché ho rotto il parquet del nuovo dojo, vado a informare, scusandomi, il giovane Maestro (Yoshitaka).
Scende nel dojo dicendo, "Ah, sì? Lei ha fatto questo? Ma non è facile da rompere".
Vedendo il parquet, lancia un'esclamazione: "Oh, è straordinario! Si direbbe che sia stato tagliato, non rotto. Per il parquet non è grave, è sufficiente farlo riparare".
Anziché farmi un rimprovero, egli è piuttosto elogiativo nei miei confronti e mi incoraggia.
Interiormente sono fiero e contento. E' in quel momento che mi accorgo della presenza del vecchio Maestro(Gichin).
"E' lei, Egami, che ha rotto questo parquet?"
"Sì, Maestro, le chiedo scusa".
Chiedendogli scusa, penso dentro di me che si congratulerà con me. "Mi segua".
Lo seguo nella sua camera al primo piano. Seduto di fronte al Maestro, sono un po' preoccupato.
Dopo un momento di silenzio il Maestro dice: "Egami, lei ha fatto ancora una cosa del genere. Il vero allenamento non deve essere ciò che lei ha fatto.
Nell'allenamento di un tempo, non facevamo cose così brutali. In un vero allenamento, bisogna posare una porta di shoji (intelaiatura in legno su cui è steso un foglio di carta) sul suolo, e versarci sopra dell'acqua.
Si alleni su questo foglio senza strapparlo e si sposti senza rompere le fini armature di legno pur esercitandosi alle tecniche con potenza.
Capisce perché e cosa dobbiamo ricercare nella tecnica?"
Ecco un prezioso insegnamento che ho ricevuto dal mio Maestro».
Quali tipi di errori Shigeru Egami pensa di aver commesso in gioventù?
«Ho scoperto il karate verso il 1924, quando ero al liceo.
Gli strani movimenti e le tecniche di un capomastro di lavori edili, originario di Okinawa, mi sembravano misteriosi e mi incuriosivano; in seguito ho capito che era solo un principiante...
Qualche anno dopo, entrando all'università, ho cominciato seriamente il karate. L'allenamento era lontano dall'essere misterioso, si trattava di ripetizioni e di allenamenti sotto sforzo.
Questo allenamento ha soddisfatto il mio primo desiderio, diventare forte. Questo tipo di allenamento permetteva di rendere lo spirito combattivo e di rafforzare il corpo, ma ho capito, andando avanti, che si trattava di una forza fisica parziale e superficiale...
Mi sono allenato in tsuki e in keri con la volontà di diventare il più forte possibile, impegnando la mia vita, cosa che mi ha permesso di ottenere una forza notevole.
Ma nel corso del tempo ho dovuto comprendere i limiti della forza fisica e della forza umana, cosa che mi ha condotto a una riflessione sulla ricerca possibile.
Ho compreso i limiti di un essere umano e ho tentato di innalzarli, esplorando e creando nuove possibilità.
Chi è debole diventa forte, chi è forte diventa ancora più forte, ma vi è un limite nella ricerca della forza fisica.
Che cos'è la vera forza, che non si può ottenere attraverso un allenamento fisico spinto al limite? Esiste una cosa del genere?...
Quando ero giovane pensavo che il karate dovesse essere assolutamente efficace e ho praticato i combattimenti liberi e, per rinforzare lo tsuki, ho anche colpito un makiwara particolarmente solido; invece di utilizzare un'asse flessibile, ho utilizzato un palo quadrato di 9 cm. Ho così deviato dal vero karate...»
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La scuola dell'Uttara-Mimamsa (sanscrito "Uttara", posteriore), chiamata anche Vedānta, è probabilmente il pilastro centrale dll'induismo, ed è stata certamente responsabile di un nuovo insegnamento filosofico e meditativo, del rinnovamento e della rinascita dell'induismo e della filosofia indiana. Esistono sei sotto-scuole del vedānta, la più celebre delle quali è l'Advaita vedānta fondata da Adi Shankara. I Vaishnava, adoratori di Krishna, seguono un'altra scuola del vedānta, l'"Acintya Bhedabheda", fondata da Caitanya Mahaprabhu, in forte disaccordo con l'Advaita Vedānta.
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Nell'induismo lo Yoga è una disciplina sia fisica che psicologica che spirituale. La parola yoga significa unione, ed è generalmente interpretata come l'unione con Dio,con l'assoluto, l'integrazione tra corpo, spirito e anima, ma il significato letterale è "unione tramite soggiogamento", in quanto la radice sanscrita yug indica il "soggiogare", per cui viene anche interpretato come l'unione dovuta allo spirito che soggioga la materia, ovvero il corpo, la manifestazione materiale.
Scopo dello yoga è il Mokṣa, la liberazione dal (samsara), la ruota eterna delle rinascite, e quindi dalla reincarnazione stessa, come conseguenza dell'annullamento del (karma) accumulato in vita. La liberazione, a sua volta, è conseguenza diretta del raggiungimento del samadhi assoluto (senza seme, senza oggetto), ovvero l'ultimo passo di tutto il cammino dello yoga. Lo yoga cerca di raggiungere la liberazione attraverso il distacco dello spirito (purusa) dalla natura materiale (prakŗti), ovvero attraverso la liberazione dello spirito dall'inganno di identificarsi con la manifestazione materiale, considerata la causa prima di tutte le sofferenze umane è infatti proprio l'ignoranza, da leggersi come ignoranza ontologica, chiamata (avidya). Gli strumenti messi a disposizione, secondo la codifica di (Patanjali) contenuta nello (Yoga Sutra), il più antico trattato scritto di yoga, sono la meditazione, gli esercizi fisici e respiratòri e spirituali. In tutto vengono elencati otto passi della disciplina, che pende il nome di (astanga yoga) (yoga in otto parti): (yama) e (niyama), le pratiche etiche(asana), le posture fisiche (pranayama), la scienza del respiro e dell'energia (prana), (pratyahara) ovvero il ritiro dei sensi, che compongono lo yoga cosiddetto esterno, e poi le tre membra dello yoga interno (antar yoga), ovvero (dharana) il mantenimento della concentrazione, (dhyana) la meditazione, e il (samadhi), la beatitudine (ananda) che può differenziarsi in 'con seme', ovvero in cui c'e' ancora una traccia di manifestazione materiale nella coscienza, o 'senza seme', dove lo stato di beatitudine è assoluto, perché il tutto è oggetto stesso e insieme soggetto del momento meditativo.
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domenica, maggio 01, 2011
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L'obiettivo principale della scuola del Purva Mimamsa è quello di stabilire con forza l'autorità dei Veda. Il contributo più rilevante della scuola, di conseguenza, è quello di avere formulato delle regole d'interpretazione dei Veda. I suoi aderenti hanno creduto fermamente che la vera conoscenza fosse provata con evidenza, ed hanno cercato di scoprire la base del ritualismo vedico attraverso la ragione. La Mimansa forma la base del ritualismo nell'induismo contemporaneo, che appare spesso affatto politeista.
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Peculiare dell'induismo è il suo intimo legame con la filosofia e con la scienza in generale (sia scienze sociali che fisiche). Contrariamente all'Occidente, in cui infatti numerosi furono i conflitti ed i punti di attrito tra Scienza e Religione, l'induismo accetta e digerisce ogni nuova scoperta, inglobandola nel proprio sistema filosofico.
In un testo di mitologia sono così presenti informazioni di teologia, astronomia, filosofia e molto altro ancora: leggere un Purāṇa (ad es. il Bhāgavata Purāṇa) è prima di tutto leggere un'enciclopedia.
Gli studiosi distinguono due filoni filosofici principali: le filosofie astika, che riconoscono l'autorità dei Veda (ossia le sei darshana: Samkhya, Nyaya, Vaisheshika, Purva Mimamsa, Yoga e Vedānta), e le filosofie nastika, che invece li respingono (Giainismo, Buddhismo, Chārvāka ed Ateismo).
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I testi sacri più recenti dell'induismo sono denominati "Smṛiti" o "Smriti" (ciò che è ricordato, memoria, tradizione).
Mentre la letteratura "Shruti" è scritta in sanscrito vedico, la Smriti è scritta in sanscrito classico, più semplice e comprensibile, o in prâkrit, la "lingua comune". Maggiormente accessibile a tutti, la letteratura Smriti ha conosciuto una grande popolarità all'interno di tutta la società indiana sin dalle origini. Anche oggi la maggior parte del mondo induista ha più familiarità con la Smriti, divulgata anche attraverso telefilm, film, rappresentazioni, balletti, dipinti, sculture, racconti, ed altre forme artistiche, a differenza di una Shruti divenuta di esclusiva pertinenza dei brahmana. La Smriti, con le sue storie di re, eroi e Dei, corrisponde dunque alla letteratura popolare, ed assolve ad una funzione didattica e divulgativa, malgrado, in caso di apparente contraddizione, la Shruti venga riconosciuta come prioritaria.
La letteratura Smriti comprende:
• Gli Itihasa: le epopee del Râmâyana e del Mahâbhârata, che racchiude al suo interno la famosa Bhagavad-Gita
• I Purâna: diciotto maggiori (Maha Purana) e diciotto minori (Upa Purana)
• Gli Âgama: 28 trattati teologici, completati dagli Upâgama (Âgama minori) e dai
• Darshana, testi filosofici.
Anche i Dharmashâstra (Libri della legge) fanno parte della Smriti.
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I Veda sono considerati i testi religiosi più antichi del mondo, e vengono definiti in sascrito "Śruti" o "Shruti" (ciò che è stato ascoltato/rivelato). Si dice infatti che siano stati rivelati dallo Spirito Supremo (Brahman) o da Dio ai rishi, durante uno stato di meditazione profonda. I Veda sono stati tradizionalmente trasmessi oralmente da padre in figlio, da maestro (guru) a discepolo. Successivamente vennero trascritti da un saggio chiamato Vyāsa o Vyāsadeva, il compilatore. Sulla base di vari indizi e riferimenti interni ed esterni ai testi, i ricercatori hanno avanzato ipotesi molto diverse sulla datazione dei Veda, dal 5000 al 1500 a.C.
Secondo la visione induista tradizionale, i Veda sono senza inizio né fine, e le verità in essi contenute sono eterne, e non sono creazioni umane, a differenza degli insegnamenti di Buddhismo e Giainismo.
La tradizione vuole che i Veda siano stati suddivisi in quattro parti dal grande rishi di nome Vyasa, ovvero Rig Veda, Yajur Veda, Sama Veda e Atharva Veda.
Il Rig-Veda contiene dei mantra per invocare i deva per il rito del sacrificio del fuoco (Yajña); il Sama-Veda contiene dei canti per lo stesso sacrificio; lo Yajur-Veda contiene delle istruzioni per la celebrazione di riti; l'Atharva-Veda comprende dei carmi filosofici e semi-magici (contro i nemici, le malattie, e gli errori commessi durante i riti).
Ciascuno è diviso in quattro sezioni:
• Samhitâ: mantra e inni
• Brâhmana: testi liturgici e rituali
• Âranyaka: la sezione teologica
• Upaniṣad: la sezione speculativa
I Veda sono testi pieni di misticismo e di allegorie. Molte scuole filosofiche come l'Advaitismo incoraggiano ad interpretarli filosoficamente e metaforicamente, ma a non prenderli troppo alla lettera. Il suono dei mantra è considerato purificante, e per tale motivo c'è un'attenzione rigorosa per l'erudizione e la pronuncia corretta.
La religione vedica, in particolare durante il suo periodo arcaico, era differente dall'induismo attuale per numerosi aspetti, tra i quali, ad esempio, il riferirsi alle donne come autorità religiose (con l'esistenza di donne rishi), l'apparente mancanza della credenza nella reincarnazione, ed un pantheon differente (con Indra a capo degli Dei).
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Le scritture sacre dell'India antica si classificano in tre categorie: i Veda, le scritture della religione vedica, da cui deriva l'induismo moderno, le scritture induiste post-vediche, e le scritture dei movimenti dissidenti come il jainismo ed il buddhismo. Questi ultimi testi costituiscono una reazione ai Veda, ma vi restano fortemente legati in termini di insegnamenti e di concezione generale della vita. Qui verranno esaminate solo le prime due categorie.
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Restano pochissime informazioni sull'Induismo primitivo. I documenti più antichi conosciuti sono i Veda, che si ritiene siano stati codificati nella loro forma attuale secoli prima delle prime versioni scritte note e trasmessi con esattezza per tradizione orale. I testi più antichi sono scritti in una variante arcaica di sanscrito, e presentano delle somiglianze con i testi dello Zoroastrismo. Di fatto, il sanscrito e l'avestico, la lingua dello Zoroastrismo, sono lingue molto vicine. L'età dei Veda e l'origine dei loro autori sono dei soggetti controversi, sebbene appaia chiaro che la religione vedica avesse tratti molto arcaici, strettamente connessi con l'arcaica società indoeuropea.
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Ahimsâ è un concetto che raccomanda la non-violenza e il rispetto per tutte le forme di vita. Il termine ahimsâ compare per la prima volta nelle Upaniṣad e nel Raja Yoga, è la prima delle cinque yama, o voti eterni, le restrizioni dello Yoga.
Molti induisti praticano il vegetarismo come una forma di rispetto per ogni forma di vita senziente. Esso inoltre è raccomandato per le sue virtù purificatrici (sattva) come un modus vivendi sano e igienico. Il 40% della popolazione indiana (ed il 55% dei brahmana) adotta una dieta vegetariana, soprattutto nel Rajasthan (63%), Haryana (62%), Punjab (48%). Questa dieta è basata principalmente su latte e vegetali; qualcuno evita anche l'aglio e la cipolla poiché si crede abbiano proprietà rajasiche, vale a dire passionali.
Gli induisti che mangiano la carne per lo più si astengono dal consumo di carne bovina e dall'utilizzo di prodotti come il cuoio. La maggior parte degli indù considera infatti la mucca come il miglior esempio della benevolenza degli animali e, poiché è l'animale più apprezzato per il latte, è riverito e rispettato come una madre. Di conseguenza nella maggior parte delle città sante indiane è vietata la vendita di carne di mucca (spesso di qualsiasi tipo di carne) ed esistono divieti sull'abbattimento delle mucche in quasi tutti gli Stati dell'India. La pratica di sacrificare delle capre o altri animali nei templi della Dea madre è scomparsa a causa delle critiche.
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I templi indiani (i Mandir) hanno ereditato dei riti e delle tradizioni antiche e molto elaborate, ed occupano uno spazio speciale all'interno della società indiana. Normalmente sono dedicati ad una divinità principale e a delle divinità subalterne, associate alla divinità principale. Alcuni templi sono tuttavia dedicati a divinità multiple. Quasi tutti i templi maggiori sono costruiti in accordo con gli agama shastra, e sono meta di pellegrinaggio.
Per molti induisti, i quattro Shankaracharya (i responsabili dei monasteri di Badrinath, Puri, Sringeri e Dwarka - quattro tra i monasteri più sacri- e per alcuni anche un quinto, quello di Kanchi) sono considerati come i principali "patriarchi" dell'induismo.
Il tempio è un luogo per ricevere il darshan (la visione della divinità), per la puja, per la meditazione e per altre attività religiose. La puja, o adorazione, è generalmente rivolta ad una murti (statua o icona nella quale si invoca la presenza divina), congiuntamente a canti e preghiere sotto forma di mantra. L'adorazione delle murti è fatta quotidianamente all'interno dei templi, e fa parte integrante della bhakti. La maggior parte delle case indù ha una stanza o uno spazio consacrato per l'adorazione quotidiana e la meditazione religiosa.
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La società indù è tradizionalmente divisa in quattro grandi classi o caste, basati sulle professioni e sul guna da cui sono influenzati:
• Brahmana, sacerdoti ed insegnanti (Sattva guna)
• Kshatrya, re, guerrieri ed amministratori (Rajas)
• Vaishya, agricoltori, mercanti, uomini d'affari (Rajas e Tamas)
• Shudra, servitori ed operai (Tamas)
Queste classi sono chiamate varna, ed il sistema sociale è il Varna Vyavastha
In India si ritiene che la società sia organizzata secondo l'equilibrio del dharma. Questa organizzazione permette l'armonizzazione dei rapporti tra gli uomini e la definizione dei doveri che spettano loro. Questa preoccupazione per l'equilibrio ha un'origine dottrinale, perché essa corrisponde, di fatto, al simbolismo dei Guna, o qualità/sapori. Ai tre Guna corrispondono i tre colori che sono ciascuno associato ad una casta.
All'origine, l'indù non nasce in una casta: acquisterà la sua casta in funzione del ruolo e delle responsabilità che sarà condotto a ricoprire. Molti testi mitologici denunciano l'usurpazione del titolo di brahmino da parte di certi personaggi che, sotto la copertura della nascita, approfittano di uno status importante senza compiere i propri doveri.
Non è chiaro se il sistema delle caste sia o meno parte integrante dell'induismo: i testi Shruti ne fanno raramente menzione, il sistema è invece regolato dai testi Smriti. In precedenza, il sistema era basato esclusivamente sulla professione, e vi sono decine di esempi di matrimoni tra differenti varna e di cambi di professione. Più tardi (sembra intorno al 900 a.C., ma gli storici avanzano differenti ipotesi), invece, il sistema diventò rigido e basato sullo status acquisito per nascita. Successivamente, con lo sviluppo di numerose sotto-caste e di una casta di intoccabili (Dalit) al di fuori del Varna Vyavastha, è nato il sistema delle caste così come lo conosciamo oggi. In seguito alle invasioni e alla colonizzazione britannica, la regola si è fatta ancora più stretta a vantaggio delle caste superiori, relegando i shudra alla posizione di dominati. Dopo l'indipendenza del 1947, anche grazie all'opera di Gandhi, vengono emanate molte leggi per sradicare il sistema delle caste, ma ancora oggi esistono diversi pregiudizi, soprattutto nei confronti degli "intoccabili".
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In parallelo ai quattro periodi della vita indù, l'induismo ritiene che esistano quattro scopi all'esistenza o purushārtha. Poiché i desideri umani sono naturali, ciascuno di questi scopi serve a perfezionare la conoscenza dell'uomo dal momento che, tramite il risveglio dei sensi e la sua partecipazione al mondo, ne scopre i princìpi. Ciò nonostante, l'indù deve guardarsi dall'essere affascinato da questi scopi, sotto la pena di errare senza fine nel ciclo del Saṃsāra. Gli scopi sono:
1. Artha o la ricchezza: l'uomo deve partecipare alla società creandosi un patrimonio e delle relazioni che saranno il frutto del suo lavoro. Deve fare attenzione però a non farsi ingannare dal fascino di una vita agiata, la quale deve venire usata per trarne un insegnamento. Il periodo del Grihastha è propizio al perseguimento di questo fine.
2. Kâma o il piacere: il piacere non è percepito come un male, anzi è un dono della divinità. Nella mitologia induista, il dio Amore, Kāma, è la sorgente della creazione. Il Kama Sutra espone i mezzi per esaltare i sensi e far fiorire la vita di coppia. Grazie ai piaceri, il campo della conoscenza si allarga e l'atto amoroso ne è il culmine, in cui l'uomo e la donna non si distinguono più, ma formano un tutt'uno che ricrea l'unità divina. Il piacere deve essere diretto allo scopo di conoscere e non deve diventare uno stile di vita che condurrebbe a commettere degli atti immorali o contro il dharma.
3. Dharma o il dovere: il dharma deve dirigere tutti i quattro periodi della vita. Il dovere permette all'uomo di proseguire la propria vita sul retto cammino, conformandosi al diritto e alla morale che sono trascritti nel Dharma Sūtra o nel Manu-Samhitā detto anche Legge di Manu.
4. Moksha o la liberazione: durante i due ultimi periodi della vita dell'indù, questo ricerca Moksha. Si tratta in realtà dello scopo ultimo della vita, che può essere raggiunto attraverso mezzi differenti, come ad esempio il Bhakti Yoga.
La svastikā, più conosciuta con il nome di croce uncinata, è il simbolo stesso dei quattro periodi e scopi della vita. Questo segno, di origine molto antica, si ritrova in molte civiltà e simboleggia la rivoluzione del sole e le forze cosmiche. I quattro bracci simboleggiano gli oggetti e le stagioni della vita che convergono verso il medesimo centro, chiamato bindu. Questo punto centrale, che rappresenta l'etere, il quinto elemento, si irradia sugli altri quattro, così come sui punti cardinali, sugli scopi e sulle stagioni della vita umana. Comprendere questo simbolo e meditarvi permette di realizzare l'unità dell'universo e di Dio.
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Secondo la tradizione vedica, l'uomo deve attraversare quattro stadi della vita o ashram (l'altro significato di questa parola designa un eremo di sannyasi). Questi quattro periodi della vita sono:
1. Il brâhmâcârya: il giovane, sotto la guida del suo maestro o guru, osserva un periodo di castità e di formazione, tanto profana quanto spirituale, durante la quale svilupperà il suo sapere e la sua virtù.
2. Il grihastha: il giovane, divenuto adulto, entra nella vita mondana, si sposa e fonda una famiglia, che è anche un dovere religioso. Durante questo periodo, ha il diritto di godere della vita, contemporaneamente imparando ad avere dominio di sé.
3. Il vânaprasthya: dopo aver compiuto il suo dovere sociale, lascia la sua famiglia, a cui ha lasciato mezzi di sussistenza, e va a vivere un periodo di studio delle scritture sacre nel "soggiorno nella foresta", praticandovi la meditazione e il digiuno.
4. Il samnyâsa: ormai anziano, raggiunge lo stato di rinuncia, disinteressandosi dei beni materiali, e diviene un sannyasi. Distaccato dal mondo, può ritornare tra i suoi poiché non teme più le tentazioni materiali e potrà far partecipi coloro che lo circondano della sua esperienza e del suo sapere.
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Come ogni religione, l'induismo ha fondato la sua fede su un rituale funebre particolare e su una originale concezione della morte. L'induista crede nella reincarnazione e nella vita dopo la morte, dal momento che il corpo è considerato un mero involucro materiale temporaneo (samsara). Quando giunge il momento di lasciare la vita, l'anima o Ātman abbandona il corpo. Se ha accumulato karma attraverso troppe azioni negative, l'anima si incarna in un nuovo corpo su un pianeta come la terra o inferiore, come l'inferno (Naraka), per subire il peso delle sue malvagie azioni. Se il suo karma è positivo, vivrà come un essere divino, o deva, su uno dei mondi celesti (superiori alla terra, come il paradiso o Svarga) nei quali sperimenterà grandi piaceri spirituali, fino al momento in cui il suo karma positivo non sarà esaurito; allora l'anima ritornerà in un altro corpo sulla terra, facendo parte di una casta (o classe sociale) spiritualmente elevata. Questo ciclo è chiamato Saṃsāra. Quando il karma viene completamente assolto, l'anima abbandona definitivamente il mondo fisico (fatto di sofferenza, poiché soggetto a malattia, vecchiaia e morte) e può infine raggiungere la liberazione, Moksha, ovvero l'unione con Dio. Ma per realizzare questo obiettivo e spezzare il ciclo perpetuo di morte e rinascita, l'indù deve vivere in maniera che il suo karma non sia né negativo né positivo, ovvero agendo solo per dovere (Dharma), senza scopi egoistici, ed offrendo a Dio il frutto delle proprie azioni, così come prescrive la Bhagavad Gita; quest'ultima insegna vari metodi, detti Yoga, tramite cui giungere a questo risultato, lasciando all'individuo la scelta del metodo che gli si addice di più, secondo le diverse scuole di filosofia indiana. Oggi, il credente indù, dal momento che vive in un'epoca estremamente materialista, chiamata Kali Yuga (lett. era delle tenebre, l'era attuale, caratterizzata da una diffusa ignoranza spirituale), preferisce scegliere sentieri spirituali semplici ed efficaci, come ad esempio quello del Bhakti Yoga (la via della devozione) o del Karma Yoga.
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Secondo alcuni non è corretto parlare di "Dio" in un contesto induista. Questo può essere vero solo in seguito ad un'analisi superficiale, poiché tale termine, nella cultura indù, può riferirsi tanto alla totalità del Divino quanto ai Suoi singoli aspetti: ad esempio, l'aspetto personale o quello impersonale, l'aspetto creativo o quello distruttivo, l'aspetto femminile o quello maschile, l'aspetto dolce o quello austero, l'aspetto trascendente o quello immanente, e così via.
Questa tendenza a racchiudere in simbologie aspetti tra loro opposti e complementari spiega l'apparente contraddizione tra le varie forme di Dio venerate nell'Induismo. Ciò si riflette nel sistema delle murti (raffigurazioni di Dio o dei Suoi aspetti): per fare alcuni esempi, Devi (ossia l'aspetto materno/femminile di Dio), a seconda dell'aspetto che si vuole considerare, viene chiamata Kali (aspetto terrifico della Madre Divina che, per amore del devoto, distrugge i demoni) oppure Bhavani (aspetto creativo della Madre Divina, lett. "Colei che dà la vita"); e, allo stesso modo, Shiva (l'aspetto paterno/maschile di Dio) viene chiamato a seconda dei casi Hara (lett. Distruttore) o Shankara (lett. Benefico).
I Veda descrivono il Brahman (/brəh mən/) come la Realtà Ultima, l'Anima Assoluta ed Universale. Il Brahman, un panteistico Spirito Cosmico, è indescrivibile, incorporeo, originale, infinito, assoluto, trascendente ed immanente, eterno. È il principio ultimo che non ha avuto inizio, non ha una fine, è nascosto in tutte le cose ed è la causa, la fonte, la materia e l'effetto di tutta la creazione conosciuta e sconosciuta. Esso è l'origine di tutti i Deva (esseri celesti), e rappresenta la base del manifesto e dell'immanifesto, uno stato indifferenziato di puro essere, eternità e beatitudine, situato al di là di qualsiasi speculazione filosofica o moto devozionale.
Solitamente, con "Dio" in un contesto induista ci si riferisce al Dio-persona (generalmente chiamato Īśvara, che significa "il Signore Supremo"), o il Dio con una Sua individualità, con degli attributi, con Nomi e Forme (in sanscrito, nama-rupa), il Dio dotato di tutti i poteri, al tempo stesso immanente e trascendente, il Dio che per amore dell'uomo si incarna ed impartisce gli insegnamenti necessari per ottenere la realizzazione spirituale. Ishvara (nelle sue innumerevoli forme e nomi) costituisce l'aspetto supremo di Dio presso i principali culti devozionali (Bhakti o Bhakti Yoga) monoteisti, ovvero Shivaismo (monoteismo di Shiva), Vaishnavismo (monoteismo di Vishnu / Krishna) e Shaktismo (monoteismo di Devi, la Madre Divina, chiamata anche Shakti). È importante sottolineare, tuttavia, che nessuno di questi culti nega l'esistenza o la validità delle altre forme/nomi divini; ciò che varia in ognuno di essi è soltanto l'aspetto peculiare (di Dio) su cui ci si vuole focalizzare, per farne oggetto di devozione.
Secondo la scuola di pensiero del Vedānta, in particolare secondo la filosofia Advaita (filosofia della non dualità), esiste un substrato metafisico di tutto ciò che esiste - su tutti i piani, grossolano, sottile e causale - un vero e proprio supporto situato al di là di ogni individualità, sia che essa riguardi l'anima individuale (detta Jīva) o quella universale (Ishvara, o Dio-persona). Questo substrato si trova oltre il mondo dei nomi e delle forme, ed è appunto il Brahman.
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Om, il più importante simbolo religioso dell'induismo.
Aum, solitamente translitterato in Om (ॐ), è il simbolo più sacro dell'Induismo, il suono primordiale, sintesi di ogni preghiera, rituale o formula sacra. È un segno carico di un messaggio simbolico profondo: è considerato come la vibrazione divina primitiva (Pranava) da cui ha avuto origine l'universo manifesto; rappresenta quindi la base metafisica di tutte le esistenze, l'abbraccio e fusione di tutta la natura nella Verità Ultima.
Viene utilizzato come prefisso (e talvolta come suffisso) nei mantra, e in quasi tutte le preghiere della tradizione induista.